Stefano Tommasini su Artribune, “Viaggio nei nuovi immaginari della danza contemporanea italiana”, 31 luglio 2017
“Al Teatro della Misericordia è andato in scena The Olympic Games di Marco D’Agostin e Chiara Bersani. È la loro prima prova in tandem; si tratta di un feroce apologo sullo scetticismo contemporaneo e su alcune possibili strategie di difesa. Un cuore travolto ha bisogno solo di prossimità, di resistenza, non di fuochi d’artificio. Tantomeno di muri o divieti.
L’avvio è ben congeniato. Un fastidioso presentatore/imbonitore (D’Agostin) ci accoglie, nei decibel, al solo brand di questi giochi olimpici (i noti cerchi, benissimo progettati da Paola Villani), promettendo la luna ma per colmare distanze oramai irrecuperabili. Tutti vengono presentati in questo agone col proprio vero nome, ma in un ruolo conferito, tanto più mediatico quanto meno disputato: così a Matteo Ramponi tocca quello dell’atleta con il complesso di Adone, ma poi sùbito divertito culturista pin-up (stile Bruce Weber o Herb Ritts), fors’anche go-go boy senza club né alcun inutile pudore per l’esposta calvizie. Sempre gioviale, proprio come il gaudente trafitto San Quintino del Pontormo al museo. Poi l’immancabile mascotte: un maestoso elefante di pelouche dalla testa riversa e come dolente (la fortuna non è qui di casa), mentre, sotto il costume, il volto di Marta Ciappina, lo si immagina subito esattamente come quello di Leda nello studio di Leonardo, esposto in pinacoteca. Perché i volti, i ritratti che accompagnano le presenze di questa incredibile performance sono già una revoca delle “divine proporzioni” che l’introduzione della prospettiva ha teorizzato nella cultura di cui i nostri pregiudizi sono da sempre gli eredi. Insieme a uno stuolo di ragazzini intercettati sul posto per comporre la cornice di questo quadro, in realtà incomponibile perché tutto esposto nella retorica della sua persuasione, arriva ultima Chiara Bersani. La festa è breve, non resta che prendere la parola. In tutta la matematica anatomica della sua fragilità, Bersani nel suo speech di apertura dei giochi non fa sconti a nessuno. E tutto, mirabilmente, cambia. La tregua per ogni conflitto che in Grecia la celebrazione dei giochi olimpici comportava, è oggi eredità inascoltata. È forse la voce di un’intera generazione che chiede conto di questo “mondo tiepido” incapace di “rivoluzione” perché solo interessato a “inseguire incubi” più che a “diventare stelle”. I giochi si aprono dunque in questa aria di vetro, montaliana, senza che nessuno si volti, ognuno con il proprio segreto. Allora tutti provano a tenere in gioco Bersani nel suo sforzo di compiere il percorso del tapirulan multicolore che la insegue. Come se, oltre ogni retorica, l’obiettivo ultimo di farcela, nella corsa, implicasse inclusione e accoglienza. Da qui sequenze di apertura dei corpi e ostensione degli sforzi in direzione nostra, del pubblico. Ciappina prova inutilmente alcuni perimetri: finalmente l’energia esplode, grazie a questa raggiunta fenditura en face con noi che guardiamo e catalizziamo. Poi D’Agostin, a braccia e mani alzate, in un gesto attivo di resa sur place e in forma di dono, promuove contagi per raccogliere risposte. E funziona, eccome: il pubblico risponde, una comunità si produce, come anche un’ipotesi di resistenza. La gara si trasforma in un appuntamento segreto. E non c’è più bisogno di alcuna corsa. Perché qualcosa infine si ricompone.”
Maria D’Ugo su www.enricopastore.com, “Benvenuti a SANTARCANGELO DEI TEATRI – 07/07/17: The Olympic Games e Molotov Cocktail Opera”
“Una scelta decisamente accattivante quella di trasformare lo spazio del Lavatoio di Santarcangelo nel pulpito dal quale celebrare un’analogia tutt’altro che scontata: un festival di teatro come olimpiade, arena di corpi in movimento e spettacolarità da conquistarsi a volumi altissimi, da discoteca, con tanto di dj-set e cerchi olimpici scintillanti nel buio a sovrastare quella che viene definita una “liturgia”, e in effetti lo diventa, operata dalla grande presenza e sapienza vocale di Marco D’Agostin, che nella prima e ritmatissima parte della performance divide la scena con il corpo muscoloso e atletico del danzatore Matteo Ramponi. L’uno ci regala un’esplosione di danza a corpo libero, un incastro di muscoli pronti allo scatto, l’altro ci mette la voce: in maniera via via più serrata snocciola alla sua audience uno dopo l’altro tutti i paesi partecipanti ai giochi olimpici, una catena sillabica perfetta di internazionalità e compartecipazione, invito e incitamento, ed evoca accanto a sé in uno sfavillio di lustrini le mascotte di queste Olimpiadi santarcangiolesi; accanto ai bambini, lo raggiungono Chiara Bersani e Marta Ciappina, quest’ultima nelle pesanti e lenti vesti di un elefante. Non lasciateci soli. You can come closer. Fra le raffiche di parole: you may say I’m a dreamer. Don’t leave us alone. Ma il pubblico non risponde, bombardato di luci, suoni, azioni, non è lì con loro. Non lasciateci soli, ripete continuamente D’Agostin. Non lasciateci soli. The world will be as one, grida. A un tratto, il cambio. Quello della cerimonia inaugurale è in effetti un dispositivo che direziona lo sguardo, che lo canalizza verso un unico centro, un unico obiettivo che va pompato, gonfiato perché investa qualsiasi canale percettivo, perché non possa in alcun modo passare inosservato, perché si lasci guardare e consumare: benvenuti dunque a Santarcangelo, ai giochi olimpici, benvenuti; ma di fronte alla richiesta principale il pubblico non può fare nulla. Non siamo lì con loro, non del tutto. Non sembra, del resto, che i perfomers cerchino davvero una condivisione e un coinvolgimento che travalichi un meccanismo di pura visione. Alla seconda parte della performance fa dunque seguito questa assenza profonda. Il ritmo si dilata e rallenta: abbandonata la sedia a rotelle, spetta alla Bersani la denuncia, a tratti forse anche un po’ troppo patetica (nel senso etimologico del termine, ma la cui verità non è oggetto di discussione), sulla difficoltà, in questa ricerca, in un viaggio iniziato a livello di idea e concetto nel 2015, delle parole giuste. Difficile trovarle e utilizzarle lì, di fronte a noi, con quel “non lasciateci soli” che continua a fare eco, qua e la. Una parentesi che ci fa tornare con uno spirito diverso al gioco olimpico, ora arrivato al suo momento di inizio effettivo: con l’ausilio di un tapis roulant “mignon” la Bersani è la prima. Seguono la Ciappina, D’Agostin, da ultimo Matteo Ramponi, che ricompare solo all’ultimo, verso la fine della performance, sudato dopo una corsa (che ovviamente non vediamo) al di fuori dello spazio scenico. Nello sforzo fisico e nella resistenza tenace cui tutti e quattro sottopongono uno dopo l’altro i propri corpi – fra le molte immagini, quella delle braccia sollevate e delle mani tese di D’Agostin, che dalla prospettiva del pubblico sembrano voler raggiungere gli anelli olimpici ancora accesi in alto sulla parete, rimane una delle più forti – viviamo, da spettatori, un ulteriore straniamento, e nella lentezza generale accade anche qualcos’altro: ci stanchiamo. Accade non soltanto per il ritmo bruscamente variato, rispetto alla prima parte, ma anche perché i performer ribaltano con forza il meccanismo della visione, e non ci perdono d’occhio un istante. Guardano, scelgono di portarci con loro a forza, e in maniera frustrante ci costringono a vivere con loro l’ansia dello sportivo nel momento decisivo, nella dinamica interna del “comincio-non-comincio” e in quella di resistenza alla fatica: ma dello sport non importa più molto. Concludono man mano sedendosi in prima fila, con noi. Alla scena si lasciano solo i cerchi olimpici, le cui lampadine però non brillano più tutte insieme, e una macchinina telecomandata, a cui affidare quella che è la replica un po’ parodica di un fuoco artificiale: gli ultimi bagliori di una fiaccola olimpica che non illumina.”