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R. Di Gianmarco, E l’uomo e la donna uscirono a rivedere le stelle. Insieme, La Repubblica, 22 luglio 2018
Il livello più apocalittico di ricordi e di impercettibilità di vocaboli è in Avalanche con coreografie e repertorio testuale di Marco D’Agostin […] Il fascino di questo detto in apparenza alienato, ricondotto a sussurri, gestito con un minimalismo che smorza gli alfabeti del corpo, si rivela presto associabile a due sopravvissuti a una catastrofe naturale. Le due sagome indossano tute blu che alludono a una simbolica missione spaziale o speleologica, e lentamente i loro flebili scambi di battute in cinque idiomi europei assumono una tonalità incisiva di cantilene, citazioni attoriali, versi di Eliot o Ginsberg, spezzoni rubati all’umanità, facendoci intendere che siamo di fronte a due archivi di remote esistenze. L’uomo e la donna stanno sillabando l’immaginario di un sapere fatto di nomenclature, conoscenze delle stelle, e presi interrotte. E questi superstiti – D’Agostin con la sua maniacalità frugale, e Silva con uno stupore esterrefatto – indulgono in sintonie di passi, scatti, chiusure e fragilità che ci parlano come dopo una lunga glaciazione, commuovendoci, con atti inscritti nel vuoto.
Lucia Medri, La danza prima e dopo, la distruzione, Teatro e Critica, 17.07.2018
Prima che tutto venga travolto, lasciamoci guardare; i nostri nomi e quelli dei nostri amici facciamoli risuonare, compitiamoli come se li udissimo per l’ultima volta nello spazio di un vuoto rarefatto. Ascoltiamo il movimento, ancora, percepiamone la densità scalfita nell’aria; non abbandoniamolo, non dimentichiamolo. Sedimentare la parola e il gesto, raccogliere insieme le macerie di una distruzione già avvenuta e amare quelle macerie perché solo da lì, dalla furia naturale della distruzione, si può ricostruire. Di nuovo, dopo la valanga. Avalanche: «Tutto quello che non è sopravvissuto agisce, invisibile, su tutto ciò che invece è rimasto e che viene revocato come regola, collezione, elenco di possibilità». “Nel dopo” di questo momento, stanno Marco D’Agostin e Teresa Silva, agenti di una “stratificazione coreografica” che ha a che vedere con la geologia dei minerali, la cristallizzazione lucente di schegge di movimento, presentata in prima nazionale a Inteatro Festival, lavoro coerente con l’idea duplice di decostruzione e memoria per la quale si è distinta quest’ultima edizione della storica rassegna di Polverigi.
Forse due astronauti, colonizzatori di un pianeta vergine oppure due ritornati Adamo ed Eva in tuta operaia; i danzatori D’Agostin e Silva lavorano e faticano ad articolare parola: mugugnano suoni, soffiano vocali morbide e corpose, le lasciano depositare sugli accennati, ma decisi movimenti che sondano una nuova dimensione dell’esserci. Gradualmente distinguiamo parole che si diranno in lingue diverse, una decostruzione esplosa del senso, un’altra, che travalica il suo stesso concettualismo per farsi archivio della permanenza. Le partiture veicolano un’indagine che, prima di dispiegarsi nel movimento, gioca con la lingua (vocal coach Melanie Pappenheim) – fusione sincretica tra italiano, inglese, francese, portoghese – e il linguaggio coreografico (movement coach Marta Ciappina), l’una rifrazione indispensabile per l’altro. «La questione del limite e dunque, in ultima istanza, della fine» continuiamo a leggere dal programma di sala mentre ascoltiamo The Disintegration Loops di William Basinski, a cui il coreografo si dichiara affezionato, ma affezionato a cosa? All’incontro tra limite e fine nella disintegrazione reiterata: si ascolta e esperisce ciò che cessa di esistere, e nella riproposizione della sua morte ecco che gli si dà nuova vita, imperitura.
«Quello che vedrai è già successo» si sente dire più volte inframezzato dalle pieghe sonore di Pablo Esbert Lilienfeld, elettronicamente contigue a quelle di Basinski per le modalità attraverso cui ricreano un ambiente desolato; e quell’accaduto lo si guarda anche. Ma come? Con occhi spersi, assenti a tratti, in altri socchiusi, spaventati, coperti quasi a volerli proteggere, prepararli con la giusta precauzione alla luce di un nuovo pianeta che secondo Abigail Fowler, light designer, è illuminato con algida nettezza. La parola è in anticipo della distruzione, la lingua si articola per ricordare, il linguaggio del corpo viene cesellato per costituirsi archivio della fine. Quasi a voler contenere il nuovo progetto, First Love, al quale Marco D’Agostin sta lavorando in questi giorni e che sembra proseguire quell’analisi sulle macerie dandole però ora un segno diverso, facendosi narrazione documentata attraverso scatti quotidiani di momenti che permangono; momenti, appunto, salvati.
Una brand new dance che fa della parola la condizione fondante al movimento e alla relazione tra i due danzatori. La parola determina infatti la coreografia arrivando per giunta a gravare su di essa, come verso il climax finale in cui Teresa Silva si piega al peso di ciò che pronuncia e viene annientata, di risposta Marco D’Agostin perde il controllo del gesto, come se rimanesse orfano di una guida, di una regola. Nel silenzio percepiamo la valanga imminente, l’arrivo della perdita, il suo rapido sopraggiungere… Restiamo, nuovamente, muti e immobili.
Renata Savo, Dal Kilowatt Festival alla stagione autunnale: a proposito delle cose che non si dimenticano facilmente, Scene Contemporanee, 11.10.2018
La storia, o meglio, ciò che resta della storia dell’umanità attraversa Avalanche di Marco D’Agostin. In scena D’Agostin e Teresa Silva, due esseri spaesati sullo sfondo di un’ambientazione algida e vuota, un’epoca ultima in cui la parola ricomincerà prima o poi a essere significante e fondativa. Le cinque lingue imbastite dai due performer retrocedono al grado zero della comunicazione, sono inafferrabili fonemi di un’unica partitura fisica e sonora che diventa anche ironica. La comunicazione passa dallo sguardo, inquisitore e fortemente espressivo. Le identità restano mute, i corpi reificati, schizofrenici, in cerca di un disequilibrio, mentre la musica afferma emozioni, ritmi, colori, come in una sinfonia. Dopo Everything is ok e The Olympic Games, la scrittura coreografica di Marco D’Agostin si conferma maestra nel rimasticare l’immaginario contemporaneo andando a ripristinare, come per rifondare il linguaggio stesso, il punto esatto in cui la danza interseca una tensione drammatica non dissimile dal linguaggio teatrale.
Nicola Arrigoni, inTeatro, viaggio fra i relitti di un mondo al tramonto, Sipario, 07.07.2018
In Avalanche Marco D’Agostin e Teresa Silva si muovono in una landa desolata, entrambi alle prese con un racconto che è già accaduto, con una storia che vive nel suo essere raccontata e lo è nel miscuglio delle lingue: italiano, spagnolo, francese, inglese e portoghese. Avalanche ovvero valanga è un ‘rotolare’, un movimento morbido e continuo in cui gesto e parola si mischiano, per correre giù a valle, al cuore dell’ultima istanza possibile del vivere e dell’essere. Ad un certo punto i segni verbali di quella storia lasciano il loro valore semantico, la loro consequanzialità narrativa per farsi semplici brandelli di lingue, di idiomi che significano per la loro musicalità. Su questo respiro linguistico Marco D’Agostin costruisce una partitura coreografica di estrema precisione e di raffinato tecnicismo, c’è a tratti una sinergia assoluta fra il suono delle parole pronunciate nei cinque diversi idiomi e il movimento dei due danzatori, dispersi in uno spazio che si costruisce con l’intrecciarsi dei corpi. Marco D’Agostin si conferma un autore pieno di talento e di intelligenza, a tratti un po’ cerebrale, ma in grado – quando si lascia andare alla creazione del movimento – di emozionare, rapire lo sguardo dello spettatore, farlo entrare nella grammatica di una danza che non è mai fine a se stessa, ma vive come connubio di pensiero e corpo. Ed è questa tensione continua che fa di Avalanche uno spettacolo non semplice, in cui si entra pian piano, si rischia a tratti di sentirsi respinti, si riceve un pugno e poi una carezza, ma alla fine scatta qualcosa. Questo qualcosa è la capacità del movimento dei due ballerini di farsi racconto, respiro agito di un pensiero che va in cerca di un non finito, di un limite, di un infinito che si palesa nel socchiudere gli occhi, nello scrutare le imperscrutabili pause fra un gesto e l’altro, fra una sillaba e l’altra, un movimento e l’altro. Si esce da Avalanche pieni di domande, consapevoli che qualcosa non funziona, ma che alla fine questo poco importa perché ciò che conta è l’intelligenza con cui D’Agostin pone le domande nel suo essere coreografo di una danza affamata di parole non per dirsi o dire, ma per essere.
Giulio Sonno, Il teatro parla di noi, ma noi chi?, di Giulio Sonno, su Paperstreet, 14 luglio 2018
Altrettanto smarriti appaiono i danzatori Teresa Silva e Marco d’Agostin in Avalanche (di quest’ultimo). Si muovono incerti in uno spazio tanto conquistabile quanto desolato e desolante. Esitano continuamente. Accennano inizî. Desistono. Parlottano incrociando cinque diverse lingue europee, ma ecco che – fine intuizione – nel momento in cui devono dichiarare gli idiomi adottati, e pronunciarli in ogni singola traduzione, qualcosa non torna più: parrà un particolare da poco, ma se diciamo «english» poi «inglese» poi «anglais» ecc., è sempre la stessa cosa? Cosa possiamo e vogliamo dire? E a partire da quale base? Esiste ancora, oggi, una cultura di partenza (cfr. Mad in Europe, Premio Scenario ’15)? Il multiculturalismo ci ha arricchiti o alienati? In Avalanche l’esplorazione spaziale-verbale di un pianeta apparentemente nuovo si ribalta di colpo in uno smarrimento esistenziale da caverna platonica: forse oramai abbiamo imparato a uscirne, ma come vivere in un orizzonte così vasto di libertà continua a rimanere un grandissimo dilemma.