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R. Di Giammarco, D’Agostin performer nella gara di sci minuto per minuto, La Repubblica di Roma, 14.09.2020
Per circa un’ora il coreografo danzatore performer Marco D’Agostin ha parlato, non è mai stato zitto, ha fisiologicamente, verbalmente, motoriamente, devotamente, attitudinalmente ricostruito una gara sciistica di fondo che la campionessa piemontese Stefania Belmondo ha affrontato vincendo la medaglia d’oro nella 15 chilometri a tecnica libera svoltasi alle Olimpiadi di Salt Lake City del 2002. Questa cronaca vissuta quasi minuto per minuto è uno spettacolo, s’intitola “First love”, ed è un evento cui ho assistito a La Pelanda nell’ambito dello Short Theatre 2020 appena conclusosi. Seguo da tempo con una certa assiduità le imprese, le iniziative dinamico-drammaturgiche di D’Agostin.
E ne sono sempre spiazzato, avvinto. Perché lui fa danzare le parole, i concetti, le idee, i brogliacci umani, le scalate verso vette di senso, e quasi da fermo (ma mai fermo) declina letterature minimali ispirate a valori di massimi sistemi. Qui, in “First love”, su una superficie bianca che ha un fondale altrettanto immacolato, lui è un cultore di Stefania Belmondo, capace di poetizzare sforzi, atletiche resistenze, pattinate, falsopiani, sciate intermedie, salite stroncanti, forcing, passaggi cronometrici, strenui attacchi, rivalità, fiati corti, recuperi secchi, volate da brivido. Riesce, D’Agostin, a rendere inaudita ogni fatica, e fluido ogni rash, comunica in ogni minimo dettaglio il dramma di un bastoncino della campionessa che in gara si spezza, con recupero problematico, inefficace, e infine accanitamente funzionale.
Questo giovane artista ha dalla sua un’imperturbabilità che accentua l’epicità, l’agonismo, le fulminee posture in ogni testa a testa di gruppo o di confronto a due. E si sciolgono in una nomenclatura di sciatrici russe o d’altra nazionalità, i paesaggi sportivi ansanti, determinati, che via via ritmano gli assembramenti o le dedizioni solitarie. Che suspense teatrale.
Anna Bandettini, Centrale Fies, Il Festival della performance è qui, su La Repubblica online, 29 luglio 2019
[…] il bravo Marco D’Agostin con First Love. Quest’ultimo, coreografo, atleta, attore ha montato una vera radiocronaca della leggendaria impresa olimpica nel 2002 di Stefania Belmondo, campionessa dello sci di fondo a Salt Lake City. D’Agostin, che da bambino si era innamorato della campionessa e della sua impresa, non solo racconta in presa diretta e nel dettaglio l’impresa sportiva ma mentre parla rivive i movimenti, lo sforzo,le tensioni dell’atleta che diventano davanti al pubblico una strana danza, astratta che, al contempo, segue le emozioni e le avventure dell’atleta così come le ascoltiamo, in una altalena tra realismo e poesia, tra corpo e parola, davvero originale.
Walter Porcedda, Gli Stati Generali
Un altro giovane coreografo, Marco D’Agostin è autore del solo autobiografico “First Love”, dove il primo amore è quello di un adolescente che negli anni Novanta è diviso dalla passione per la danza e per lo sci di fondo. Sulla scena D’Agostin rivela i suoi sogni di ragazzo e li incastona con tenerezza nel ricordo, tradotto con sapienza da radiodramma, con alcuni convincenti momenti di reportage sportivo della impresa realizzata alle Olimpiadi di Salt Lake City nel 2002 dalla campionessa piemontese Stefania Belmondo. D’Agostintesse così un racconto intimo e privato immerso nella pubblica risonanza dell’evento sportivo, cucendo in modo gentile e appropriato una trama affettuosa tra corpo e voce. Entrambi in un solidale abbraccio che fa allargare il cuore fino alla caduta leggera e soffice della prima neve.
Gaia Clotilde Chernetich, Quando la danza è dolce e gentile, su Doppiozero
Intima e trasmessa con cura, la dimensione personale evocata da First Love di Marco D’Agostin ha invece la capacità di disegnare un ricamo preciso per corpo e voce che connette una memoria importante della giovinezza del coreografo e interprete dello spettacolo con alcuni segni sonori che il ricordo porta con sé nel presente, quel luogo dove lo sguardo adulto dell’artista rivolto alla propria memoria ha la stessa magia dolcissima della prima neve che scende. Senza cedere alla vanità del ricordo né a quello della pura gestualità, la danza fonde allora il corpo a un virtuosismo della voce che, in perfetto accordo con il movimento, riproduce l’audio della telecronaca della gara con cui la sciatrice Stefania Belmondo vinse alle Olimpiadi invernali del 2002. Lo sguardo del pubblico si lascia allora coinvolgere divertito, sospeso tra la maestria della danza e la ferma delicatezza con cui Marco D’Agostin sa infondere nei propri lavori una possibilità di incontro tra la coreografia e la parola, intesi come oggetti concreti della performance, e una dimensione memoriale che assorbe l’effimero della nostalgia individuale rendendola nuovamente disponibile, come nuova materia prima, per chi osserva.
Camilla Lietti, Stratagemmi
A volte capita di aprire cassetti dimenticati in cui, tra un vecchio attestato e una ricevuta di pagamento, si nascondono piccoli oggetti, fotografie, biglietti di auguri, diari, gelosamente conservati e riposti al sicuro in tempi lontani. Dopo lo straniamento iniziale risale rapido il ricordo, che, come un flash, illumina un passato in cui quegli ammennicoli erano tesori preziosissimi, amuleti intoccabili.
È questa all’incirca la sensazione che si prova nell’aprire, prima dell’inizio di First love, la busta che viene consegnata a ogni spettatore. Al suo interno nessun foglio di sala; le note di regia per il lavoro di Marco D’Agostin — in scena al “Lavatoio” di Santarcangelo — sono una fotografia, le parole di una canzone, una spilla con il disegno di una montagna e un adesivo. Raccontano, rimandi metonimici, il primo amore del danzatore, quello per lo sci di fondo e per un’atleta in particolare, Stefania Belmondo — che sorride accanto a un Marco D’Agostin ancora bambino, nella polaroid custodita all’interno della busta. Del resto che senso avrebbe raccontare un sentimento complesso snocciolandone i dettagli e analizzandone gli alti e i bassi? Meglio procedere, anche sul palco, per sintesi, servendosi di un episodio simbolo che funzioni da culmine e summa di una storia complessa.
La scelta in questo caso è inevitabile: la gara della Belmondo nei 15 km a tecnica libera alle Olimpiadi di Salt Lake City nel 2002. Un’impresa mitica che subito entra a far parte dei sogni di molti tifosi, tra i quali c’è anche il giovanissimo fondista di cui gli spettatori tengono i ricordi tra le mani. La prova ha infatti tutte le caratteristiche di una favola eroica: l’impresa apparentemente impossibile, la competizione con avversari valorosi, l’immensa fatica nel momento della gara e una buona dose di imprevisti (uno su tutti la rottura del bastoncino). La protagonista, come da tradizione, parte da una posizione non facile: Stefania Belmondo ha un fisico minuto (il suo soprannome è Scricciolo o Trapulin) e, pur essendo una delle atlete più premiate nella storia del fondo, è alla fine della sua carriera. Ma, nonostante tutto, trionfa.
A distanza di 17 anni tocca a D’Agostin, chei suoi primi passi di danza li ha modellati proprio sulle “pattinate” dello sci di fondo, farsi voce (e corpo) narrante della mitica vittoria. Quei movimenti, prima creazione “da cameretta” del danzatore, diventano infatti i passi base che accompagnano e sostengono il racconto. Rimanendo quasi sempre al centro del proscenio, D’Agostin calibra con attenzione i passi da salita, curando nei dettagli più minuti le accelerate e la posizione da discesa.
A fare da partitura drammaturgica — nata in collaborazione con Chiara Bersani — è la telecronaca originale della gara, pronunciata sul palco dallo stesso D’Agostin. Ed è qui che scatta un inaspettato cortocircuito; la natura analitica della cronaca, che all’apparenza si contrappone all’estrema soggettività della prospettiva narrante, potenzia invece l’efficacia del racconto. La cadenza — a tratti anche grottesca — della parlata del telecronista non fa solo da musica per i faticosi passi del danzatore, ma appassiona la platea che alterna momenti di tensione e risate, fino alla tentazione di mettersi davvero a fare il tifo. Ma per chi? Per la Belmondo, ovviamente, e anche per Marco, il cui lavoro non è solo fisico e vocale. Il danzatore è infatti contemporaneamente oggetto e soggetto del narrare. Questo duplice piano di azione, sempre presente sottotraccia, si esplicita solo nei pochi momenti in cui — quasi a non volesse perdere la concentrazione della gara — devia dalla telecronaca dell’impresa. Quando ad esempio gli incitamenti indirizzati alla sciatrice si trasformano in esortazioni rivolte a Marco, superando così la barriera della contingenza per diventare eredità e sprone quotidiano.
Anche le barre led, poste sul palco a zigzag, sembrano ribadire questa sovrapposizione di piani. Ricordano una pista da sci, il profilo di una montagna e allo stesso tempo una frattura, un confine, una strada. Perché D’Agostin non è diventato fondista ma danzatore, e infatti, nella sua danza, riconosciamo anche la necessità, condivisa con molti spettatori in sala, di sanare un debito e di esprimere riconoscenza verso una possibilità che, seppur non percorsa, è, in altra forma, ancora presente. Forgive me my first love cantava Adele (e Marco insieme a lei) in apertura dello spettacolo…
Stefania Belmondo, intanto, vince la gara. D’Agostin, riguadagnato il ruolo di regista della propria memoria, chiama in scena la neve, che cade tranquilla e malinconica sul palco. La tregua col passato è, almeno per il momento, ristabilita.
Stefano Casi, Il primo amore è una terra straniera, su Casi Critici
Il primo amore non tocca soltanto il muscolo del cuore, non investe solo i sospiri, l’immaginazione, il desiderio, la trepidazione, l’euforia… nell’esperienza del primo amore sta anche l’invenzione di gesti e posture, stanno tutti i muscoli, che si ricompongono secondo una grammatica nuova, di cui l’età ci farà presto perdere le regole – e le emozioni. C’è una fisicità apparentemente scoordinata, che pure corrisponde a un linguaggio preciso e incalzante. Nella memoria il primo amore corrisponde a una goffaggine dei sentimenti e dei gesti, ma nell’immanenza quei sentimenti e quei gesti hanno la limpidezza di un discorso inevitabile e netto. Il primo amore può essere una persona, un animale, un attore, un atleta, un cantante, una passione che ha il sapore dell’assolutezza infantile o adolescenziale. Che, da adulti, dimentichiamo o ricordiamo con il filtro mitopoietico dell’esaltazione o della delusione. In ogni caso, con un filtro, che sfuma sentimenti e gestualità, perché “il passato è una terra straniera”, come scriveva Leslie P. Hartley, e avventurarsi in quel territorio ignoto può essere affascinante, ma faticoso: per le gambe, i muscoli, la lingua, le emozioni inattese. Così è il “primo amore” raccontato da Marco D’Agostin in uno spettacolo dalla spinta personalissima, che sa interpretare una condizione comune.
Il suo primo amore è stato uno sport, lo sci, che si rapprende nell’immaginario attraverso una figura eroica, una campionessa dello sci di fondo: quella Stefania Belmondo che nel 2002 vinse la medaglia d’oro in una gara impegnativa e leggendaria alle Olimpiadi di Salt Lake City. Marco aveva 15 anni. E quello fu il suggello del suo “primo amore”. Nello spettacolo First love, D’Agostin impone allo spettatore un’equivalenza indiscutibile: il concetto di “primo amore” è sovrapposto alla rievocazione di quella gara di Stefania Belmondo, ed è attraverso la lente interpretativa del “primo amore” che l’intera rievocazione va letta. L’adesione è reale, il viaggio nella “terra straniera” è reale, quello che vedremo è reale… ma sostenere l’autenticità passa attraverso la simulazione, per riproporre con precisione la distanza da cui si guarda ogni volta che ciascuno di noi pensa al primo amore (o comunque al passato). Il rapporto tra autenticità e simulazione è impostato fin dal breve prologo iniziale. D’Agostin, immobile al centro della scena, rivolto al pubblico, interpreta in playback First love di Adele, e mentre muove le labbra con convinzione, fingendo di cantare sovrapponendosi alla voce di Adele, osserva negli occhi gli spettatori: non il pubblico, ma gli spettatori, uno a uno, come per impostare un rapporto personale, come per introdurre una confessione privata, insistendo sul playback come garanzia ironica (nel senso di distante) della memoria. E le parole di Adele suonano come una dichiarazione di poetica di questo spettacolo (“So little to say but so much time / Despite my empty mouth the words are in my mind”), ma anche come la premessa nostalgica e spietata al tempo stesso che introduce ogni nostro ricordo del primo amore: “Forgive me first love”.
Lo spettacolo consiste nella rievocazione della telecronaca di quella gara di Stefania Belmondo. Una sorta di calco aderente, di mimesi verbale, in cui il corpo ci appare in un primo momento come mero supporto di un flusso di parole. Se all’inizio potevamo sentire la vera voce di Adele, mentre il performer muoveva solo le labbra, adesso la voce di Dario Puppo (il cronista di quella gara per Eurosport) è completamente assente, sostituita dalla recitazione di D’Agostin, in un’operazione che per certi versi ricorda quella di Marco Cavalcoli sul film Il mago di Oz in Him. D’Agostin imita con adesione pressoché perfetta (ma con sottili alterazioni e reinvenzioni) il telecronista, con le tipiche inflessioni, le pause, le divagazioni dell’originale; e alcuni appunti e dettagli della telecronaca, privati della visione della gara e del codice del giornalismo sportivo e ‘assolutizzati’ in un’enunciazione teatrale, diventano perfino umoristici.
Dall’iniziale posizione statuaria, D’Agostin inizia lentamente a muovere il corpo, pur senza rinunciare alla posizione centrale in cui sta dall’inizio. La memoria della telecronaca fa riemergere la memoria del gesto. Eppure, non si tratta affatto di un’imitazione dei movimenti della sciatrice, ma di un’allusione. I movimenti atletici vengono decostruiti, distillati e ricomposti secondo una partitura che è atletica e coreutica al tempo stesso: i gesti denunciano il loro essere tracce fisiche e alterate di una memoria personale, intima; come se il recupero della memoria del first love comportasse la ridefinizione di un alfabeto ritrovato e personale. Il divario di enunciazione verbale e partitura fisica, così estremo nel precedente assolo di D’Agostin Everything is ok, si ricompone, anche se a tratti si fa strada quasi un agone, un conflitto, tra il discorso e il movimento, tra la parola e il corpo, tra la voce e la fisicità. Mentre scorrono le parole della telecronaca restituite da D’Agostin, il performer stesso incarna nei movimenti del suo corpo la memoria di un corpo che proviene da quel passato “terra straniera” che si sta rievocando e che ha un nome preciso: first love. Come se la telecronaca non fosse altro che la leva proustiana di un amore che la distanza temporale e soprattutto la mitizzazione ideale hanno trasformato in altro dal vero sé.
D’Agostin è lì, in una ‘sfacciata’ frontalità che comporta la chiamata dello spettatore alla condivisione di un’esperienza personale, che però riconosciamo come condivisa. D’Agostin si mette a nudo, chiamando come testimone/confessore lo spettatore: al suo sforzo fisico e mentale (senti-mentale) cosa corrisponde nello spettatore? Quale adesione? Il “primo amore” è quello di Marco, la memoria della telecronaca è sua, la fisicità esuberante è sua: tutto sembrerebbe respingerci eppure tutto ci risucchia al tempo stesso, fino a riconoscere in quello sforzo – e soprattutto in quel percorso di rievocazione – i sentimenti e i processi che ci riportano ai nostri stessi ricordi, e alla ricostruzione mentale e fisica di quei momenti.
Poi, una parentesi: nell’impianto drammaturgico perfettamente delineato si insinua una crepa. Lentamente, mentre continua la lunga telecronaca, D’Agostin abbandona la posizione centrale, arretrando in un angolo in fondo alla scena, nella penombra. E la telecronaca slitta nella memoria della voce dell’allenatore dello stesso Marco ragazzino (o almeno questa è l’impressione): dal giornalista che incalza Stefania Belmondo verso la vittoria si passa all’allenatore che spinge il protagonista in una qualche competizione giovanile, in un’eco sferzante che sembra risalire dai ricordi più preziosi: “Vai Marco! Vai vai vai vai vai”. E’ un momento incalzante e inquietante, direi dark, sostenuto da un insinuante e potente orizzonte sonoro, con la voce che non lascia spazi di silenzio o di ripresa del fiato: nel passaggio alla performatività il fermo-immagine dei momenti felici (e faticosi) del Marco ragazzino sulla neve riecheggia quasi come un sogno confuso. E’ il nucleo più intimo dello spettacolo (e perciò spazialmente più lontano dal pubblico) e più necessario, anzi necessitante: è il fulcro stesso dello spettacolo, ciò che dà senso al resto, la breccia aperta da cui è scaturito tutto. Nella penombra, come un sogno dove i confini di voci e persone sfumano. O come un incubo. Quanto tempo è passato? Sono io quello lì? Il passato è una terra straniera, ancora…
Chiusa la parentesi, la telecronaca recitata da D’Agostin riprende, ancora al centro in proscenio: ai contorni sfumati della confessione più intima succede nuovamente la chiarezza luminosa dell’imitazione della telecronaca della gara di Stefania Belmondo, con sempre maggior adesione verbale e una sempre più concitata e apparentemente scomposta elaborazione gestuale e fisica: l’esibizione mattatoriale e virtuosistica di D’Agostin si impone, come per cancellare dalla memoria dello spettatore quell’intima parentesi dark, arrivando fino alla rievocazione del trionfo di Stefania Belmondo che chiude la telecronaca. Il ricordo del primo amore torna a essere collettivo, ed è soprattutto fisico.
L’intera performance è fisicamente molto impegnativa: la memoria dell’amore è una memoria faticosa, una memoria del corpo che comporta gesti estremi e molto sudore. E’ così che D’Agostin rievoca il suo (e il nostro) primo amore. Eppure, l’oggetto dichiarato è assente dalla rappresentazione: nessun elemento viene portato allo sguardo dello spettatore come ‘prova’ di quell’amore, di quel ricordo, di quelle emozioni impalpabili e in sostanza indicibili e irrappresentabili. Del primo amore abbiamo la memoria nel movimento, ma è completamente alterata (il gesto non è mimetico). Abbiamo il sentimento di questa memoria (nella parentesi più intima). Abbiamo il ricordo di un evento eroico che dovrebbe riassumere l’eroismo di quel first love. E abbiamo una telecronaca logorroica che è in qualche modo la narrazione di un primo amore, che risuona – da lontano – quasi surreale, ironica, con le parole che vengono a tratti ripetute, distanziate, infrangendo la pura imitazione… quasi come fossero brandelli di memoria che faticano a ricomporsi o che rimbalzano trasformando la stessa parola in qualcosa di sempre diverso. E così, nel finale D’Agostin finisce per “arrendersi” alla memoria, risucchiato nuovamente sul fondo della scena nella penombra e nel silenzio, lasciandosi inondare dalla neve. La neve, finalmente! La prova materiale che aspettavamo! La traccia necessaria e imprescindibile di quanto raccontato! Ma è esplicitamente finta, un trucco teatrale: come nella canzone di Adele, autenticità e simulazione si ricongiungono per comporre un atto di rievocazione della realtà, sulla fiducia.
Ma la neve è soprattutto altro. Evoca la freddezza. Congela quel first love che, dopo il calor bianco dell’intera performance, si rapprende in una sorta di ibernazione della memoria (e dell’amore, del primo amore), ampliando ancor di più la distanza da quella terra straniera. Lasciando allo sguardo dello spettatore l’immagine di una nevicata incessante, quasi funebre, che copre lentamente il corpo immobile, sotto un debolissimo pallido sole.